Vini italiani
L'Italia è tra i principali produttori di vino, nonché consumatori ed esportatori, al mondo. Con le sue 533 denominazioni (DOCG, DOC e IGT), la superficie dei vigneti italiani (quasi 700.000 ettari)...Mostra di più
Vini italiani, una tradizione ricca e straordinariamente variegata
La percezione e il riconoscimento del vino italiano nel mondo
I vini italiani hanno saputo conquistarsi uno spazio di grande rilievo sul panorama internazionale. Nel giro di pochi decenni li abbiamo visti trasformarsi, mettersi al passo con le tecniche più moderne e rivendicare la loro tipicità, come valore aggiunto insostituibile.
A seconda della qualità delle annate, ormai l’Italia occupa ogni anno il podio della produzione mondiale di vino, insieme a Spagna e Francia, spesso posizionandosi al primissimo posto. Questi tre paesi sono responsabili, da soli, del 45% della produzione mondiale.
Al contrario della Francia, dove le regioni viticole si trovano a occupare zone ben specifiche e delimitate del territorio nazionale, in Italia la vigna è coltivata ovunque. Dai vigneti di montagna in Valle d’Aosta fino alle calde vigne della piccola isola di Pantelleria, al largo della Tunisia. Se è vero che le regioni che producono la maggior parte del vino made in Italy sono senz’altro Toscana, Piemonte e Veneto, è altrettanto vero che in ogni singola regione italiana si trovano prodotti di alta qualità, riflesso di un territorio ben specifico. E la qualità non è materia di dubbio, visto che la legislazione italiana al riguardo è una delle più rigorose che ci siano. Oggi i wine lover di tutto il mondo riconoscono il prestigio, la grandezza e la specificità dei vini italiani. Ma non è sempre stato così.
Il vino in Italia, una storia di rivalsa
Essendo l’Italia una penisola, su cui l’influenza del mare Mediterraneo ha il potere regolare le temperature, la coltura della vite è sempre stata molto diffusa fin dai tempi antichi. Sembra che le piante siano state originariamente portate dei Greci conquistatori, al tempo della colonizzazione del sud Italia, se non addirittura prima. Alcuni vitigni portano nel loro nome la traccia di questo passato, come il Greco e l’Aglianico (evoluzione di Ellenico). Non è certo un caso che l’antico nome greco per l’Italia fosse Enotria, ovvero “terra del vino”. Gli Etruschi sono stati grandi viti-vinicoltori. Sono tuttavia i Romani che, trasportando in patria le conoscenze e le tecniche apprese durante le loro conquiste, fanno evolvere l’arte vinicola dello stivale. Fatto strano, i Romani non hanno l’abitudine di bere il vino schietto, ma usano diluirlo con acqua per renderlo più leggero (senza che questo impedisca loro di indulgere in ebbrezza e bagordi, come raccontano i poeti in età imperiale).
Con le invasioni barbariche, il sapere enologico, come tanti altri, finisce per occupare un’importanza parecchio marginale. Nei secoli del Medioevo la viticoltura italiana sopravvive solo grazie al lavoro dei monaci. Quasi ogni monastero, specialmente dopo la diffusione della Regola Benedettina (ora et labora), oltre al proprio orto, ha un po’ di terra dedicata alla vigna, per la produzione del vino da messa.
Si instaura così in tutta la penisola un tipo di produzione vinicola, più votata alla quantità che alla qualità. Anche se nel corso dei secoli diversi tentativi per emergere vengono avviati da isolati produttori, specialmente in Toscana e Piemonte, per lungo tempo l’Italia rimane vittima di questa logica commerciale.
Piano piano anche le tecniche vitivinicole più moderne vengono a dare una boccata di ossigeno alla viticoltura italiana. Si scoprono l’importanza della barrique e del legno di rovere francese, la fermentazione malolattica, le presse pneumatiche, i tini in acciaio inox e la termoregolazione, il controllo dei rendimenti in vigna, il tempismo nella vendemmia e nell’attesa della maturità fenolica, la selezione degli acini… Ma ciò che ha costituito il vero inizio della rivoluzione è stata la rivendicazione della tipicità dei differenti terroir e, soprattutto, dei vitigni autoctoni. Un patrimonio di inestimabile valore che si aggira sulle centinaia di vitigni attualmente coltivati in Italia.
La regolamentazione di vini italiani
Sono degli anni Sessanta le prime leggi a livello statale in materia di viticoltura e di regolamentazione dei vini di qualità prodotti in determinate regioni. È a questi anni che si fa risalire il cambio di direzione della viticoltura italiana. Negli ultimi decenni del XX secolo infatti grande attenzione viene dedicata a garantire la tipicità e un certo livello di qualità, con regole e leggi. Il 10 febbraio 1992 prende avvio la nuova disciplina in materia di denominazioni di origine dei vini.
Secondo le ultime norme sull’etichettatura, diventata più conforme alla classificazione europea, i vini italiani si suddividono essenzialmente in due macro sezioni: vini senza denominazione di origine e vini a denominazione di origine. I primi sono vini senza un particolare rapporto col territorio, che restano molto economici e che sono gli ex vini da tavola.
I vini a denominazione di origine rientrano nella classificazione europea dei prodotti a Indicazione Geografica Protetta (IGP) e Denominazione di Origine Protetta (DOP). Nell’uso i primi vengono chiamati vini a Indicazione Geografica Tipica (IGT) e i secondi comprendono i tradizionali Denominazione di Origine Controllata (DOC) e Garantita (DOCG). Partendo dai disciplinari meno restrittivi, per salire fino ai più restrittivi, l’ordine gerarchico-qualitativo è: IGT, DOC e al vertice DOCG. Allo stato attuale sono più di un centinaio le IGT, più di 300 le DOC e più di 70 le DOCG.
D’altronde va specificato che sebbene la DOCG rappresenti il top delle denominazioni italiane, non tutti desiderano fregiarsene. Per scelta, molti produttori preferiscono rimanere all’interno della denominazione IGT, che consente maggiore libertà, senza che questo significhi una qualità necessariamente inferiore. Un esempio su tutti è dato da certi Supertuscan, che non essendo 100% Sangiovese, ma un assemblaggio di vitigni internazionali, non possono essere identificati come Chianti o altro.
La tipicità di terroir e vitigni
Siccome il vigneto italiano, quasi 700.000 ettari, è esteso su tutta la superficie della penisola, lo spettro dei terroir è straordinariamente ampio. Dai vigneti in altitudine, come in Trentino o in Veneto, dove le vigne sono talmente inclinate da rendere impossibile l’utilizzo di macchine agricole e per le quali è stato coniato il termine di viticoltura eroica… Passando per le dolci colline del Piemonte e della Toscana… Fino ai dibattuti vini vulcanici che attraversano tutta l’Italia, dall’altoatesino Soave al siculo Etna… E via discorrendo. Ogni regione, ogni zona, ha i suoi terreni specifici. E i suoi vitigni.
Vero tesoro della viticoltura italiana è lo straordinario numero di varietà coltivate. L’Italia detiene un record mondiale da questo punto di vista. 350 vitigni coltivati, tra autoctoni e internazionali. I rossi sono indiscutibilmente i più noti e apprezzati a livello mondiale. Vitigni come i piemontesi Nebbiolo (Barolo, Langhe, Nizza di Monferrato) e Barbera (Barbera d’Asti). O i veneti Corvina, Corvinone e Rondinella, che rientrano nell’uvaggio del celebre Amarone della Valpolicella, prodotto col tipico metodo dell’appassimento delle uve. Impossibile non citare il grande ambasciatore della viticoltura italiana, sua maestà il Sangiovese, alla base di grandissimi vini come il Chianti, il Brunello di Montalcino o il Morellino di Scansano. E poi il salentino Negroamaro, il pugliese Primitivo (noto in California come Zinfandel), il siciliano Nero d’Avola, il sardo Cannonau (anche chiamato Grenache o Garnacha, residuo della colonizzazione spagnola) e moltissimi altri…
Da non sottovalutare il prestigio dei bianchi, infine. Uno su tutti, il Glera, alla base delle bollicine più di tendenza degli ultimi tempi, il Prosecco. E poi il piemontese Cortese (Gavi DOCG), il Pinot Grigio (mutazione del Pinot Nero e molto diffuso in Trentino e Friuli), il Ribolla Gialla (Veneto e Friuli), il Trebbiano (Abruzzo, Lazio, noto in Francia come Ugni Blanc), il Verdicchio (celeberrimo quello dei Castelli di Jesi, nelle Marche), il Pecorino (Marche e Abruzzo), il Fiano (Campania e Sicilia), il campano Greco di Tufo… Per citarne solo alcuni, ma la lista potrebbe continuare ancora a lungo.
Impossibile da ridurre a una sintesi generale ed esaustiva, l’Italia enoica – così come quella gastronomica – vanta una ricchezza di tradizioni talmente articolata e frammentata, da essere difficilmente riscontrabile altrove.